R I V I S T A letteraria N U G A E

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domenica, novembre 22, 2009

"Il dottor Zivago" e l'Italia...


1957-2007: i cinquant’anni de Il dottor Zivago di Boris Pasternak, un romanzo nato fra le polemiche.

E’ ritenuto un capolavoro esemplare di romanzo storico e sociale. Un romanzo dal carattere esplicitamente razionale che suscitò violente polemiche e atti intimidatori quando fu pubblicato, il 23 novembre del 1957. A distanza di cinquant’anni, il romanzo Il dottor Zivago di Boris Pasternak (nella foto) viene celebrato in tutta Europa non senza ricordare la persecuzione intellettuale e morale che l’autore ha dovuto subire dal regime comunista e dai servizi del Kgb che lo costrinsero alla povertà e all’isolamento.

Il romanzo è lunghissimo, quasi settecento pagine in cui è raccontata la storia – per certi versi autobiografica – di Zivago, per un periodo compreso tra il 1905 e il 1930. La narrazione copre quindi i trent’anni cruciali della Russia. Anni in cui ciò che succede al dottor Zivago succede a milioni di Russi a causa della fallita rivoluzione del 1905, a causa della Prima guerra mondiale, a causa della Rivoluzione d’Ottobre, della guerra civile, della carestia, della Nep e, infine, della dittatura comunista consolidata.

Non è stato facile pubblicarlo. In Russia il romanzo non potette circolare neanche in bozzetti. L’Italia si guardava attorno con circospezione. Molti intellettuali non volevano – o non poterono – diffondere il romanzo perché coscienti che si trattava di una spietata denuncia, senza equivoci, di quel regime sovietico perpetrato ai danni dei cittadini russi. Il clima politico italiano non era favorevole alla pubblicazione: ciò significava rompere con il Partito Comunista Italiano. E per questo che la pubblicazione fu rifiutata da Giulio Einaudi o, come disse Vittorio Strada, il più grande teorico della letteratura russa, fu una pubblicazione mancata per insufficiente tempestività e per deficit organizzativo. Gli intellettuali che ruotavano intorno alla casa editrice fecero di tutto per far sì che la pubblicazione non avvenisse, almeno non subito. Intervennero personalmente Palmiro Togliatti, Rossana Rossanda e Pietro Ingrao. Anche Italo Calvino, consulente editoriale per Einaudi, cercò di ritardarne la pubblicazione.

Ma il romanzo vide la luce lo stesso. In Italia prima che in Urss. Fu pubblicato in prima mondiale da Giangiacomo Feltrinelli, giocando sull’inerzia e l’indecisione della Einaudi. Il manoscritto gli era stato recapitato a Berlino da un giornalista italiano che lavorava a Radio Mosca. Trentuno edizioni in un anno, fu la fortuna della casa editrice anche se si consumò la rottura tra la Feltrinelli e il Pci.

Il libro si diffuse in tutta Europa e fu tradotto in tutte le lingue, ma con esso circolò anche il ‘Caso Pasternak’. Qualche mese dopo la pubblicazione, nel 1958, gli fu conferito prima il premio Bancarella e poi il premio Nobel per la letteratura, ma il governo russo gli precluse la possibilità di ritirarlo, se lo avesse fatto non avrebbe potuto far ritorno in patria. Venne poi espulso dall’Unione Nazionale degli Scrittori e, da quel momento, visse nel gelo glaciale della politica e della letteratura ufficiale, un esilio forzato dal quale venne a liberarlo la morte, nel 1960. Nonostante tutto, la fama di scrittore crebbe a dismisura, a testimoniare che le forme di genialità e l’arte in generale non si possono sopprimere.

Ricordare Pasternak oggi significa esprimere un sentimento commosso verso uno fra i più grandi poeti del Novecento. Un poeta vero, miracolosamente sopravvissuto alla generazione dei suicidi e dei massacri di quasi tutti i suoi amici. Il dottor Zivago è un romanzo ritenuto un capolavoro esemplare di storia, vita sociale e conflitti individuali difficile da non identificare con quel periodo storico per molti ritenuto freddo e glaciale come la sensazione che traspare dalla lettura quando si incontrano i manti bianchissimi della Siberia, il luogo simbolico d’esilio del dottor Zivago/Pasternak. Il romanzo fu pubblicato in Russia solo nel 1988, dopo la perestroika. Mentre nel 1989, Yevgueny Pasternak, figlio dell’autore, compirà quel viaggio in Svezia per ritirare un Premio rimasto lì da oltre trent’anni.

2.6.1 - La trama del libro

Leggendo il romanzo si sente il freddo glaciale delle notti russe e il suono della Balalaika.

Il protagonista si chiama Jurij Andrèevic Zivago, un medico. Dopo aver combattuto nella prima guerra mondiale rientra a Mosca per salvare i suoi familiari dalla Rivoluzione russa. Si rifugia con la moglie e il figlioletto in un paesino sperduto sui Monti Urali dove incontra Lara, crocerossina impiegata nel suo stesso reparto ospedaliero. Tra i due nasce un amore interrotto dalla cattura del dottor Zivago da parte dei partigiani russi. Al suo ritorno dopo la fine della rivoluzione, non troverà la moglie ad aspettarlo, ma Lara. Una storia d’amore raccontata attraverso le poesie che il protagonista scrive per la sua amata, ma anche e soprattutto il simbolo della lotta culturale di sinistra di quel periodo, di cui lo scrittore Boris Pasternak si fa portavoce. Nel 1965 il romanzo divenne un film per la regia di David Lean, con Omar Sharif e Julie Christie, che lanciò le vicissitudini di Jurij e Lara sullo sfondo della Russia rivoluzionaria in ogni angolo del pianeta e che vinse cinque premi Oscar e la Palma d’Oro a Cannes. La Russia solo nel 2006 portò in scena il capolavoro in televisione in forma di sceneggiato. Fu visto da milioni di telespettatori.


(tratto da "I premi letterari Campiello e Bancarella", tesi di laurea di Giuseppina Bianchino; per gentile concessione dell'autrice)



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mercoledì, novembre 18, 2009

www.battiato.it

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lunedì, novembre 16, 2009

Inneres Auge: il terzo occhio di Battiato sulla Povera Patria...


Intervista a Franco Battiato, requiem per la politica, il cantautore siciliano e i “rincoglioniti” al governo.

di Marco Travaglio

30 ottobre 2009

Franco Battiato è molto diverso da come lo immagini. Allegro, scherzoso, spiritoso, talora persino un po’ cazzone. Forse perché, con la sua cultura sterminata e la sua pace interiore, se lo può permettere. Un uomo, però, armato di un’intransigenza assoluta, di un’insofferenza antropologica per le cose che non gli piacciono. E’ appena tornato da due concerti trionfali a Los Angeles e New York e ancora combatte il jet-lag nella sua casa di Milo (Catania). Parliamo del suo ultimo pezzo-invettiva “Inneres Auge”, già anticipato sulla rete: uno dei due singoli inediti che impreziosiscono l’album antologico in uscita il 13 novembre (“Inneres Auge - Il tutto è più della somma delle sue parti”). Una splendida invettiva che si avventa sugli scandali berlusconiani e sulla metà d’Italia che vi assiste indifferente e imbelle, con parole definitive: “Uno dice: che male c’è a organizzare feste private con delle belle ragazze per allietare Primari e Servitori dello Stato? Non ci siamo capiti: e perché mai dovremmo pagare anche gli extra a dei rincoglioniti…”.

Che significa “Inneres Auge”?


“Occhio interiore. Ma lo preferisco in tedesco. In italiano si dice “terzo occhio”, ma non mi piace, fa pensare a una specie di Polifemo. I tibetani hanno scritto cose magnifiche sull’occhio interiore, che ti consente di vedere l’aura degli uomini: qualcuno ce l’ha nera, come certi politici senza scrupoli, mossi da bassa cupidigia; altri ce l’hanno rossa, come la loro rabbia”.

Lei, quando ha scritto “Inneres Auge”, aveva l’aura rossa.

“Vede, sto bene con me stesso. Vivo in questo posto meraviglioso sulle pendici del Mongibello. Dalla veranda del mio giardino osservo il cielo, il mare, i fumi dell’Etna, le nuvole, gli uccelli, le rose, i gelsomini, due grandi palme, un pozzo antico. Un’oasi. Poi purtroppo rientro nello studio e accendo la tv per il telegiornale: ogni volta è un trauma. Ho un chip elettronico interiore che va in tilt per le ingiustizie e le menzogne. Alla vista di certi personaggi, mi vien voglia di impugnare la croce e l’aglio per esorcizzarli. C’è un mutamento antropologico, sembrano uomini, ma non appartengono al genere umano, almeno come lo intendiamo noi: corpo, ragione e anima”.

I “lupi che scendono dagli altipiani ululando”.

“Quello è un verso di Manlio Sgalambro che applico a questi individui ben infiocchettati in giacca e cravatta che dicono cose orrende, programmi spaventosi, ragionamenti folli e hanno ormai infettato la società civile. Quando li osservo muoversi circondati da guardie del corpo, li trovo ripugnanti e mi vien voglia di cambiare razza, di abdicare dal genere umano. C’è una gran quantità di personaggi di questa maggioranza che sento estranei a me ed è mio diritto di cittadino dirlo: non li stimo, non li rispetto per quel che dicono e sono. Non appartengono all’umanità a cui appartengo io. E, siccome faccio il cantante, ogni tanto uso il mio strumento per dire ciò che sento”.

L’aveva fatto già nel 1991 con “Povera Patria”, anticipando Tangentopoli e le stragi. L’ha rifatto nel 2004 con “Ermeneutica”, sulla “mostruosa creatura” del fanatismo politico-religioso e della guerra al terrorismo ingaggiata dai servi di Bush, “quella scimmia di presidente”: “s'invade si abbatte si insegue si ammazza il cattivo e s’inventano democrazie”.

“Sì, lo faccio di rado perché mi rendo conto di usare il mio mezzo scorrettamente. La musica dovrebbe essere super partes e non occuparsi di materia sociale. Ma sono anch’io un peccatore e la carne è debole…”

Lei non crede nel cantautore impegnato.

“Per il tipo che dovrei essere, no. Ma non sopporto i soprusi e ogni tanto coercizzo il mio strumento. Il pretesto di “Inneres Auge”, che ha origini più antiche, è arrivato quest’estate con lo scandalo di Bari, delle prostitute a casa del premier. E con la disinformazione di giornali e tiggì che le han gabellate per faccende private. Ora, a me non frega niente di quel che fanno i politici in camera da letto. Mi interessa se quel che fanno influenza la vita pubblica, con abusi di potere, ricatti, promesse di candidature, appalti, licenze edilizie in cambio di sesso e di silenzi prezzolati. Questa è corruzione, a opera di chi dovrebbe essere immacolato per il ruolo che ricopre”.

“Non ci siamo capiti”, dice nella canzone.

“Non dev’essere molto in gamba un signore che si fa portare le donne a domicilio da un tizio che poi le paga, dice lui, a sua insaputa per dargli l’illusione di piacere tanto, di conquistarle col suo fascino irresistibile. Quanto infantilismo patologico in quest’uomo attempato! Ma non c’è solo il premier”.

Chi altri non le piace?

“Tutta la banda. I cloni, i servi, i killer alla Borgia col veleno nell’anello. Li ho sempre detestati questi tipi umani. Per esempio il bassotto che dirige un ministero e fa il Savonarola predicando e tuonando solo in casa d’altri, senza mai applicare le stesse denunce ai suoi compagni partito e di governo. Meritocrazia: ma stiamo scherzando? Badi che, quando dico bassotto, non mi riferisco alla statura fisica, ma a quella intellettuale e morale: un occhio chiuso dalla sua parte e uno aperto da quell’altra”.

“La Giustizia non è altro che una pubblica merce”, dice ancora.

“Penso al degrado della giustizia: ma i magistrati dovrebbero ribellarsi tutti insieme e appellarsi al mondo contro le condizioni in cui sono costretti a lavorare. Non possono accettare, nell’èra dell’informatica, di scrivere ancora sentenze e verbali col pennino e il calamaio, mentre la prescrizione si mangia orrendi delitti e, in definitiva, la Giustizia”.

Quando Umberto Scapagnini divenne sindaco di Catania, lei minacciò addirittura di espatriare. Come andò?


“Avevo previsto un decimo di quel che poi è accaduto. Un inferno.Catania era uno splendore: in pochi anni, come Palermo, è stata devastata da questa cosiddetta destra. Ma nessuno ne parla”.

Lei è di sinistra?

“E chi lo sa cos’è la sinistra. Basta parlare di destra e di sinistra, anche perchè a sinistra c’è un sacco di gente che ha sempre fatto il doppio gioco al servizio della destra, spudoratamente. Per evitare tranelli, uso un sistema tutto mio: osservo i singoli individui, poi traggo le mie conclusioni”.

Ha votato alle primarie del Pd?


“Sì, per Bersani. Non che sia il mio politico ideale, ma mi sembra un tipo in gamba. Forse l’ho fatto perché almeno, in queste primarie, il voto non era inquinato. Non è poco, dalle mie parti, dove alle elezioni politiche e alle amministrative i seggi sono spesso presidiati da capibastone e capimafia che ti minacciano sotto gli occhi della polizia”.

Quella cosa dell’espatrio non era esagerata?

“La ripeterei oggi. Io sono sempre pronto: se in Italia le cose dovessero peggiorare, me ne andrei. Ubi maior, minor cessat. Mica puoi fare la guerra ai mulini a vento. Per fortuna è difficile che si ripeta il fascismo, anche perché sono convinto che molti italiani la pensano come me e sarebbero pronti a impedirlo. Comunque, “pi nan sapiri leggiri nè sciviri”, comprerò una casa all'estero”.

Lei è molto antiberlusconiano.

“Sono un Travaglio un po’ più bastardo. Penso che la tecnica migliore sia l’aplomb misto all’irrisione, senza urli né insulti”.

Ma Berlusconi non è finito, al tramonto?

“Dipende da quanto dura, il tramonto. Ma non credo sia finito: la cordata è ancora robusta. Però mi sento più tranquillo di qualche mese fa: sta commettendo troppi errori”.

I partiti hanno mai provato ad arruolarla?

“Mai. A parte Pannella, tanti anni fa. Qualche mese fa mi ha chiamato un ministro di questo governo per dirmi che mi segue da sempre e concorda in pieno con una mia intervista. Forse non aveva capito o avevo sbagliato qualcosa io. Ma ora, dopo il mio ultimo singolo, magari fa marcia indietro”.

“Inneres Auge” già impazza sulla rete. Teme reazioni politiche?

“Mi aspetto la contraerea. Ma siamo pronti”.

Non teme, con una canzone così “schierata”, di perdere il pubblico berlusconiano?

“Mi farebbe un gran piacere. Se invece uno che non mi piace viene a dirmi di essere un mio fan, sinceramente mi dispiace”.

Ai tempi del “La voce del padrone”, a chi la interpellava sul significato dei suoi testi ermetici, lei rispondeva “sono solo canzonette”. Lo sono ancora?

“Quello era un gioco, ma non sono mai stato d’accordo con questa massima di Edoardo Bennato. “La voce del padrone” era un’operazione programmata come un divertimento frivolo e commerciale, e riuscì abbastanza bene, mi pare. Ma in realtà avevo inserito segnali esoterici che sono stati ben percepiti e seguiti da molti ascoltatori. Ogni tanto mi dicono che qualcuno, ascoltando i miei pezzi, ha letto Gurdjieff e altri grandi mistici. E questo mi rende un po’ felice”.

“Inneres Auge”: serve a qualcosa, una canzone?

“Lei parla di corda in casa dell’impiccato: ho sempre avuto dubbi su questo nella mia vita. Ma, dopo tanti anni, posso affermare che un brano molto riuscito può scatenare influenze esponenziali. Una canzone può migliorarti e farti cambiare idea e direzione. Un giorno domandarono a un grande pianista dell’Europa dell’Est, ora a riposo: lei pensa di emozionare il suo pubblico? E lui: “Quando sono riuscito a emozionare anche un solo spettatore nella sala gremita di un mio concerto, ho raggiunto il mio scopo”.

da Il Fatto Quotidiano n°33 del 30 ottobre 2009